GAVIN TURK
mostra personale
22 maggio 1996
I lavori di Gavin Turk sono imprescindibili dalla sua lucida analisi personale sul mito e sul labile e traballante confine tra dramma e farsa, tra messaggio e incongruenza, tra sublime e banale, tra individualità e narcisismo nell’arte contemporanea. L’artista utilizza e rovescia il linguaggio ed i meccanismi che reggono e sottendono il sistema dell’arte del nostro tempo, per restituirceli sospesi tra la serietà dell’intento e l’ironia del risultato, mettendo simultaneamente a nudo la grandezza, l’artificio, gli autoriferimenti, i codici interni, verificando fin dove é possibile spingersi sul baratro del paradosso. Allo stesso tempo Turk ricostruisce e presenta la mitologia costruita attorno alla figura dell’artista, la sua identificazione ed il suo rapporto con e per l’opera, rielaborando e capovolgendo termini e le questioni poste da chi lo ha preceduto, in un gioco di rimandi che fonda la sua forza proprio nella sua potenziale inesauribilità e reciprocità.
In Cave (1991), un’opera presentata nei locali della sua scuola alla fine dei suoi studi accademici, l’artista espone una targa commemorativa, di quelle che in Gran Bretagna sono all’esterno degli edifici che ospitarono personaggi famosi, con la dicitura “Gavin Turk, scultore, lavorò qui”. Premettendo l’attestato alle opere che avrebbe dovuto sancirlo, attraverso l’ironica e provocatoria anticipazione di una sua potenziale fama, requisito necessario per ottenere la targa, Turk inverte le regole del gioco, mettendo in atto uno sfasamento “plastico-temporale” che paradossalmente rende momentaneamente superfluo la presenza delle opere stesse.
Pipe (1991) è il cast in bronzo di una pipa di liquirizia che a sua volta imita la forma di una vera pipa che a sua volta assomiglia ad una pipa su un famoso quadro di Van Gogh. L’ oggetto è esposto in una vetrina di una grandezza relativa al rapporto tra le dimensioni della pipa e la sedia in cui è posta nel suddetto dipinto. La concatenazione dei riferimenti, dalla vita all’arte al packaging industriale, passando “internamente” da Duchamp a Magritte, dalle birre di Johns alle vetrine di Beuys, manda in cortocircuito scopo e significato dell’opera stessa, rivelando e ponendo la decisione dell’artista di effettuare questa operazione come una ragione finale ed incontrovertibile. Oppure Font (1994), una serie di vasi di ceramica che ricordano un wc ruotato a 360 gradi, posti su dei piedistalli, sui quali l’artista ha inciso il nome di un museo diverso per ognuno. anche qui il meccanismo si fa ambiguo, incentrandosi e divincolandosi tra l’anticipazione e la seduzione per un’acquisizione da parte dell’istituzione iscritta nella targhetta, la simulazione di un furto o di un prestito qualora fosse esibita in un altro luogo, e la serialità dell’azione.